venerdì 17 maggio 2013

Il cappello dell'attore. Nota poetico-critica di Alceo Lucidi sul concerto di Francesco De Gregori


Una vaga atmosfera fumosa mi avvolge mentre trepidiamo per l'arrivo di De Gregori. Un misto di emozioni mi accompagna. L'incontro con un musicista che non ho ancora visto dal vivo ma che ha scandito alcune tappe della vita di questo paese nell'arco di oltre quarant'anni. De Gregori e la contestazione politica e dei costumi. De Gregori e il senso di appartenenza ad un progressismo di sinistra svigorito dal tempo e i compressi. De Gregori e le storie di uomini piccoli e grandi, coraggiosi eppure così comuni, figli di un grande destino o solitari e forgiati dalla Storia. 

Le luci si abbassano e gli artisti sfilano nella penombra: sono tanti attori del rito sempre nuovo della musica che rinnova i suoi linguaggi ed affina i suoi strumenti per dispensare emozioni e coinvolgere, unire, abbattere barriere. Eccolo De Gregori, capitano di un mare sterminato di canzoni e suoni. Ci viene incontro come un viaggiatore pronto a riabbracciare i suoi amati compagni, a rivedere i posti di sempre.Elegante, dinoccolante, sciolto e sicuro sui lunghi passi dell'uomo che ha molto viaggiato, il cantante e' pronto per l'abbraccio con la scena. Smaliziato se ne fa cullare con noncuranza e freschezza di accenti. La faccia serrata da occhiali scuri, il volto dalle fattezze impenetrabili, si dimostra invece prodigo di gesti e parole. Parla del suo nuovo album con sottile ironia che riscalda e ne smorza benevolmente il mito, sempre mantenendosi misurato e riflessivo. Ha carisma ed eleganza da vendere, toni alti e pieni, quelli che mancano al nostro paese riempito di pseudo-intellettuali ,che non perdono mai tempo per incensarsi.
De Gregori può essere anche pungente con sé stesso, indulgere apiccole confessioni e restare sempre se stesso, un uomo che vuole stare assieme agli altri, uno scrittore che arriva a certe altezze poetiche, ma non le rivendica, mescolandole invece alla carne ed il sangue delle pene dei giorni. 
Quando apre lo scrigno dei suoi ricordi la voce è ancora più tramata da un insondabile passione. La gentilezza si fa canto ed assurge ad empiti di tatto misurato, di empatica, scanzonata vicinanza. 
Allora penso che De Gregori si fa grande non sono solo perché ha una voce carezzevole e speciale, tecnicamente precisa, tagliente fino all'inverosimile, no De Gregori è il compagno che ti siede accanto e ti può anche suggerire, ma che prima ancora ti incontra e ti da una pacca sulla spalla invitandoti a prendere un bicchiere. E' l'attore di una scena più grande con una valigia sempre pronta, come si è autodescritto, in continuo divenire, che ti saluta con una promessa di ritorno accennata da un sorriso appena sbozzato sulle labbra che non sai se sa di beffa. Allora penso a Dylan riflesso in De Gregori: lo vedo nel suo modo di fare, in quel cappello da fuorilegge dell'amore, dal destino erratico e tutto da inventare. Cita Dylan sotteranemente ma il suo bisogno di rivendicare le storture è anche figlio di quello spirito libertario e dalle tante forme artistiche del cantastorie americano. 
Sfugge alle regole questo nostro italico saltimbanco, come potrebbe essere altrimenti, e soprattutto stringe a se più generazioni: contestatori impenitenti, giovani innamorati, sognatori imperterriti, anime anarcoidi ed innamorate della verità dell'uomo.

Alceo Lucidi

Nessun commento:

Posta un commento